
Dopo aver più o meno prontamente affrontato le profonde criticità derivanti dall’esplosione della pandemia da Covid-19, le aziende della filiera TLC sono attualmente impegnate a testare la contestuale affidabilità dello Smart Working o Remote Working appena implementato e, soprattutto, la sua potenziale applicabilità e sostenibilità una volta rientrata l’emergenza. Non nascondiamoci, però, che questo repentino e, per certi versi, prematuro “cambio di programma”, per la maggior parte delle aziende, è stata una scelta obbligata più che una naturale evoluzione del proprio modello di business. In questa difficile fase di transizione, è indispensabile capitalizzare tutti gli investimenti fatti fino a questo momento, analizzando criticamente i nuovi processi implementati ed interpretando con una rinnovata apertura mentale l’insieme dei dati raccolti.
Ai fini di una piena accettazione da parte di tutti i soggetti coinvolti dello Smart Working come modello organizzativo di sviluppo sostenibile, è necessario cambiare completamente approccio. Le aziende devono rapidamente imparare a concentrarsi più sui risultati raggiunti che non sulle ore che i propri dipendenti passano sul luogo di lavoro. Solo in questo modo, infatti, dall’attuale Remote Working – indubbiamente innovativo per lo specifico contesto italiano ma pur sempre forzato – si potrebbe passare ad una forma evoluta di Smart Working, in cui work-life balance, produttività e miglioramento continuo delle performance possano davvero convivere omogeneamente.
Portata complessiva del fenomeno
Per farsi un’idea della portata complessiva del fenomeno, secondo una recente ricerca della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, “Non chiamatelo Smart Working. Il Lavoro Agile ai tempi del Coronavirus secondo i Consulenti del Lavoro”, sono ben 2 milioni 205 mila i dipendenti attualmente coinvolti in questo processo di trasformazione dei modelli organizzativi, pari al 17,2% della forza lavoro in organico delle imprese italiane. Questa indagine, effettuata su un campione di 4.463 intervistati, oltre ad una serie di benefici derivanti dall’introduzione del Lavoro Agile, soprattutto in termini di innovazione e modernizzazione, ha evidenziato anche alcune criticità, quali, ad esempio, la scarsa digitalizzazione del nostro paese, una diffidenza di ordine culturale da parte di molti imprenditori e la difficoltà di coordinamento a distanza dei gruppi di lavoro.
Se, da una parte, tale rivoluzione digitale e culturale presenti alcune evidenti controindicazioni, dall’altra, è indubbio che le aziende italiane avranno – purtroppo – ancora molto tempo per sperimentare e sviluppare questo nuovo modello organizzativo. Secondo un recente studio di Deloitte, “Previsione della diffusione del contagio da Covid-19 e dell’impatto economico in Italia”, le conseguenze sul PIL italiano dell’emergenza Coronavirus vengono stimate nel -4,57% per il 2020, pari a 80.650 miliardi di Euro, con una perdita di oltre 800 milioni di Euro per il Primo settore (Istituzioni pubbliche), 13,5 miliardi di Euro per il Secondo Settore (Aziende di mercato) e 137 miliardi di Euro per il Terzo Settore (Organizzazioni No Profit).
Insomma, la strada è ancora lunga e, soprattutto, piena di ostacoli da superare. Eppure, come Sistema-Italia, abbiamo sempre dimostrato di essere in grado di dare il meglio di noi stessi proprio in situazioni di emergenza. Dovremo avere la forza, la pazienza e la lungimiranza di intravedere una flebile luce in fondo al tunnel, concentrando le nostre energie sulla valorizzazione e semplificazione delle strategie implementate ed immaginando una radicale trasformazione dei modelli organizzativi adottati fino a questo momento. Potrebbe sembrare retorico, ma il futuro sarà inevitabilmente molto diverso rispetto a quanto avevamo preventivato prima di questa emergenza. Dobbiamo prenderne atto ed agire di conseguenza. Non abbiamo altra scelta. Quando l’emergenza rientrerà, solo le realtà che avranno saputo affrontare il cambiamento saranno in grado di riprendere in mano – più o meno agevolmente – le redini del proprio business.
Il Remote Working nelle aziende italiane della filiera TLC
Nelle scorse settimane, Club CMMC ha promosso e realizzato un’indagine molto approfondita sugli impatti del Remote Working sui modelli di business delle realtà della filiera TLC, in particolare per i processi di Customer Service e Contact Center. In questo studio, effettuato su campione di 134 professionisti in forza presso aziende con Customer Service in house (33%), fornitori di servizi in outsourcing (30%), società di consulenza (24%) o realtà appartenenti ad altri settori (13%), la maggior parte degli intervistati (72%) ha dichiarato che l’esplosione dell’emergenza Coronavirus ha avuto un impatto significativo (27%) oppure molto significativo (45%) sui modelli organizzativi utilizzati fino a questo momento (Fig. 1).

Nel giro di pochissime settimane e con ingenti investimenti in termini logistici ed infrastrutturali, le aziende italiane sono riuscite a remotizzare complessivamente circa 52.000 postazioni, pari al 43% delle pdl attualmente disponibili. In particolare, il 54% dei professionisti intervistati ha confermato l’attivazione da parte della propria azienda di oltre il 75% delle postazioni operative (Fig. 2). Tra i casi più significativi analizzati dal Club CMMC è opportuno citare quello di TIM, con 3.000 postazioni operative di assistenza tecnica attivate in pochi giorni, e di ENEL, con ben 6.000 postazioni operative attivate su un totale di 8.000.

Come dicevamo poco fa, fra i più rilevanti ed evidenti benefici derivanti dall’adozione di questo nuovo modello organizzativo, oltre alla possibilità di dare continuità ai servizi, c’è anche l’inevitabile introduzione, da parte delle aziende, di soluzioni tecnologiche indispensabili ad agevolare la gestione delle operations come, ad esempio, strumenti per remotizzare le telefonate da postazione fissa e per garantire la collaboration tra front-end e back-office, piattaforme digitali in cloud o tool di service security. Secondo il 57% degli intervistati, infatti, l’esplosione dell’emergenza Coronavirus ha contribuito in maniera molto significativa (29%) oppure significativa (28%) alla digitalizzazione dei processi, con un corrispondente incremento anche di specifiche promozioni offerte dai principali fornitori di soluzioni tecnologiche. (Fig. 3)

Sebbene sia una prospettiva, a mio avviso, fin troppo rosea (sarà solo il tempo a darmi torto o ragione!), il dato più interessante e significativo di questa indagine è quello relativo alle aspettative sull’incremento o decremento della produttività ai fini del recupero degli investimenti effettuati. Analizzando i risultati a nostra disposizione, emerge un cauto ma, al tempo stesso, costruttivo ottimismo da parte degli intervistati. Il 49% dei professionisti interpellati dichiara infatti che, una volta rientrata l’emergenza, la produttività in modalità Remote Working risulterà più elevata contro il 18% che, invece, sostiene il contrario. (Fig. 4)

Conclusioni
Al di là di qualche stima più o meno affidabile, è praticamente impossibile ipotizzare uno scenario post-emergenza, sia per le abnormi dimensioni del fenomeno che per le numerose variabili da considerare. Sebbene la maggior parte delle aziende si siano rivelate piuttosto impreparate ad affrontare una tale emergenza, è anche vero che, come dicevano i latini, “Mater artium necessitas” (La necessità è la madre delle abilità). In caso di bisogno, spesso si riescono a fare cose davvero inaspettate. In questo periodo di sperimentazione, è importante soprattutto tracciare le linee guida da rispettare nell’immediato futuro, sviluppando ed affinando strategie che possano garantire flessibilità collaborativa, una crescente responsabilizzazione delle persone e un progressivo incremento della digitalizzazione dei processi di business.